cose scritte da neko

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lunedì 15 marzo 2010

L'ascensore e la menta

1- la menta

Lasciò scorrere l’acqua e riempì il primo bicchiere per sé, il secondo per la sua pianta. Iniziava a fare caldo e avevano bisogno di più acqua, lui e la sua pianta.
La sua pianta era menta e stava sul balcone.
Lui si chiamava Carlo ed era pronto per uscire. Controllò di avere le chiavi e ripassò a mente l’indirizzo: Via Signoretti, n° 19.
Camminando per Via Libaldi, Carlo arrivò ad incrociare Via Signoretti all’altezza del numero 50. Era ancora presto, doveva aspettare il buio, e così rimase sul lato dei numeri pari e passeggiò fino al numero 176 poi attraversò e tornò lentamente indietro.
Al numero 19 di Via Signoretti c’era un condominio.
Sei giorni prima, martedì, Carlo stava passeggiando quando i suoi occhi erano stati attratti da una luce rossa sulla sua destra. Era il numerino che segnalava il piano dove stava l’ascensore del numero 19. S’era fermato. L’ingresso era buio e Carlo vedeva solo se stesso riflesso nel portone e quel numero rosso. Il numero segnava 2.
D’un tratto un quadrato s’era illuminato giusto sotto il numero. Era il pulsante per chiamare l’ascensore. Il numero era diventato un tre, poi un quattro, poi una pausa, poi tre. Qualcuno stava scendendo.
Carlo aveva pensato di spostarsi per non farsi vedere ma continuava a fissare il numero rosso e non riuscì a muoversi. Intanto il numero era passato a due e il quadrato-pulsante s’era spento. Qualcuno era andato dal quarto al secondo piano.
S’era mosso con un sospiro, era arrivato in fondo alla strada per vedere come si chiamasse. Poi aveva attraversato, era tornato all’altezza del condominio e dal lato opposto della strada aveva guardato il numero civico. Memorizzato l’indirizzo s’era ripromesso di tornarci.
Carlo era curioso, gli piacevano i misteri. Voleva tornare al numero 19 di via Signoretti ma aveva deciso di aspettare qualche giorno per non destare sospetti.

Ora era lunedì, erano passati sei giorni.
Il numero segnava 5.
Carlo s’appoggiò ad una macchina e accese una sigaretta. Tra lui e il portone c’era l’intero marciapiede ma i pedoni erano pochi e lui vedeva distintamente i numeri dell’ascensore.
S’illuminò il tasto, fece un tiro, e 5-4-3, fumava tranquillo, 2-1, a Carlo tremarono le mani, la sigaretta rotolò per terra e sotto la macchina a cui era appoggiato, i numeri andarono avanti: 0 e poi -1.
Carlo cercò di calmarsi. S’era immaginato le porte dell’ascensore che si aprivano scorrendo e una luce gialla sgorgarne come pus e aveva avuto paura. Come se dall’ascensore potesse uscire non una persona ma qualcosa di malvagio. Sentiva che se l’ascensore si fosse fermato sarebbe svenuto. Fortuna che non era successo. Ma già tornava a muoversi. Salì fino al secondo piano. Poi si fermò. Poi fino al quarto. Poi niente.
Carlo era sfinito. Non riusciva a muoversi, avrebbe voluto tornare a casa dalla sua pianta, a casa per pensare.
Continuò a fissare il portone e la sua immagine riflessa e il quattro rosso.
S’alzò la saracinesca del garage al numero 17.
Una macchina coi vetri oscurati ne uscì, silenziosamente. Carlo la guardò con la coda dell’occhio imboccare Via Signoretti, girò la testa per leggerne la targa ma non fu abbastanza rapido: era sparita.
-Deve salire?-
Era una signora che armeggiava con la sua borsa.
-No, grazie-
La signora trovò le chiavi e aprì il portone.
Carlo aspettò che fosse entrata e, prima che accendesse la luce, se ne andò.

A casa. Solo otto gradini, un cancelletto e altri due gradini. La porta di legno, la cara porta di legno, due giri di chiave a destra e Carlo era a casa.
Lasciò scorrere l’acqua e bevve il primo bicchiere, il secondo lo portò sul balcone.
La pianta di menta stava ancora bevendo il suo primo bicchiere.
-Ciao- le disse e s’addormentò sulla sedia, nel suo profumo. Con la mano destra teneva il bicchiere poggiato sulla sua pancia.
Lo svegliò la pioggia.
Le gocce rimbalzavano sul pavimento e schizzavano sui suoi piedi nudi.
Non si ricordava di essersi tolto le scarpe. Erano accanto a lui, con i calzini dentro.
Ricordava, invece, pezzi del sogno che aveva fatto.

Il numero rosso lo guardava. Lo incuriosiva cambiando 2-3-4-pausa-4-5-stop e 5-4-2. Ma gli diceva: non devi vedere l’ascensore. Era un ordine. Fortissimo nella sua testa.
E arrivava gente. Tutti gli chiedevano:
-Lascio aperto?- oppure -Deve salire?- o -Entra?
Lui, puntuale, rispondeva:
-No- oppure –Sto aspettando…- o –Aspetto…- e appena quelli entravano si voltava a guardare la strada. Non poteva guardare l’ascensore.
Poi si trovava in un garage.
C’era una luce bluastra. Come un’alba. Si sentiva a disagio.
Buio. Buio in movimento. Dentro l’ascensore? Panico e poi calma. Una parola per calmarlo: giallo
Vedeva un amico, da lontano. O almeno credeva di vederlo. Non lo chiamava per verificare che fosse lui. L’osservava da lontano. Quello, diventato un’ombra, sparisce più in là, lungo la strada. E lui attraversava via Signoretti, riconoscendola solo allora, con un sacco nero. Si sentiva colpevole. Ma, per fortuna, con sollievo era arrivata la pioggia e lui aveva cantato.
La stessa pioggia che l’aveva svegliato. Guardò le scarpe vicino a sé: zuppe. I calzini, pure. Si toccò la camicia: asciutta ma non era la stessa di quando s’era addormentato.
Brrrrr. E nella testa una parola: giallo.
Non aveva più nessuna voglia di tornare al numero 19 di via Signoretti.


2- l’investigatrice

La signora Ronco stava sempre a casa.
Viveva al primo piano del numero 19 di via Signoretti.
Le sue finestre davano direttamente sulla strada. Dalle 18:00, massimo 18:10, leggeva un libro davanti ad una delle sue finestre e dava occhiate alla strada.
Un giorno notò un signore, un signore coi baffi. Rispettabile, avrebbe detto di lui in quel momento. Era rimasto fermo davanti al portone, s’era specchiato ed era andato via. Innocuo, avrebbe detto di lui in quel momento. Era martedì.
Giusto quel giorno era venuta la Signora Gallo, la pazza del secondo piano, quella che fa i giri con l’ascensore, su e giù. La Signora Ronco non le aveva aperto, aveva paura degli sconosciuti.
Suo marito, il Signor Ronco, tornato a casa da lavoro alle 20 come tutti i martedì, aveva detto che la luce delle scale non funzionava. L’ascensore invece sì.
Ora erano tre avvenimenti particolari in una giornata: il signore “rispettabile e innocuo”, la visita della vecchia pazza e l’ascensore che funzionava anche senza corrente.
La signora Ronco aveva deciso di tenere gli occhi aperti.

Passò una settimana senza avvenimenti particolari. Sei giorni, per la precisione. Il lunedì dopo, infatti, la Signora Gallo tornò a suonare al suo campanello.
La Signora Ronco s’era fatta coraggio e le aveva aperto la porta.
-Cosa vuole?-
-Può buttare la mia immondizia, per favore?-
La Signora Ronco aveva sbattuto la porta, non era la schiavetta di nessuno, lei.
Ed era tornata alla sua finestra giusto in tempo per veder arrivare il signore coi baffi. Sembrava ancora rispettabile e innocuo. Era rimasto fermo davanti al portone, appoggiato ad una macchina, s’era fumato una sigaretta poi era tornata la Signora Foschi e il signore coi baffi era andato via.
La Signora Ronco, erano le 19: 30, era andata a vedere un telefilm poliziesco aspettando suo marito ma quando il Signor Ronco tornò dal club, alle 22 come tutti i lunedì, le raccontò di nuovo la faccenda dell’ascensore e della corrente e aggiunse che c’era un tipo davanti al portone, uno coi baffi. La Signora Ronco corse alla finestra ma quello era già sparito.
Gli stessi tre avvenimenti, con l’aggravante del ritorno del losco signore coi baffi. Decise di fare molta attenzione e così quella notte rimase sveglia.
Verso mezzanotte sentì l’ascensore muoversi. Corse alla finestra ma vide solo una figura sparire dall’altra parte della strada. Rimase sveglia per il resto della notte ma niente si mosse più. Non poteva chiamare la polizia per così poco, si disse
-Vigilerò io-, si aggiunse quando alle 5:30 si alzò per preparare la colazione del marito.

Un mese dopo quel lunedì trovarono la vecchia pazza, la Signora Gallo, morta nell’ascensore ma la Signora Ronco non lo seppe, giusto il giorno prima era stata ricoverata per un esaurimento.


3- l’ascensore

La signora Gallo era molto vecchia.
Aveva novantacinque anni ma le sembrava di averne un milione.
Ricordava tante cose e viveva da sola. Era un po’ stanca ma stava bene.
Erano giorni che non usciva dal palazzo ma non aveva rinunciato a qualche passeggiatina.
Usciva, chiudeva a chiave e prendeva l’ascensore.
Una sera aveva iniziato a parlargli. Così, tra un piano e l’altro, come ad un vecchio amico. L’ascensore era un buon amico.

-Sai, tante cose sono successe, Caro Ascensore-
E gli raccontava di storie passate e di programmi televisivi. A volte il confine era labile.
I suoi figli vivevano lontani. –Voglio vivere con le mie mani, capisci?- e aveva rifiutato la proposta di stare un mese da ognuno di loro e pure a quella di tenere una donna in casa. –Poi c’era un cane parlante e quelli, i padroni, avevano vinto. Quello che vanno in televisione a fare le scommesse pure i nani e un uomo che tira un camion-
Se l’avesse avuto lei un cane parlante, altro che scommesse.
-Fortuna che ci sei tu, Caro Ascensore. A loro non l’ho detto che non esco più di casa. Ma non parliamo di me-.
Quella del cane parlante fu l’unica volta in cui la signora Gallo parlò all’ascensore del suo presente. Non voleva fare la vittima. Le sue giornate erano tranquille e noiose, i momenti con l’ascensore erano i migliori.
I programmi televisivi erano scuse per riflettere.
-Ieri sera c’era un film coi tedeschi. Di quando erano cattivi. Gli inglesi e gli americani erano i buoni. A scuola, io c’ho la terza elementare, la maestra c’aveva detto che gli inglesi erano cattivi poi sono diventati buoni. Una mia amica s’è fatta il vestito da sposa con il paracadute di uno che hanno fatto prigioniero. Non ricordo se era inglese o tedesco. Comunque. Adesso sono tutti buoni. Mio figlio Davide vive in Germania. Dice che è come qua ma lo pagano di più. Io ho sentito che ci stanno i turchi. Su quelli non si sa ancora se sono amici o nemici. Alcuni dicono che mettono le bombe e gl’immigrati fanno le rapine. Alcuni dicono che scrivono le poesie e mia sorella c’aveva la donna a casa che era turca, no, rumena ed era brava-.

Veniva un ragazzino a portarle la spesa. Aveva sempre una cosa per lui, mai soldi. Gli aveva fatto pure una sciarpa.
Ma un giorno gli chiese se poteva buttare la sua busta dell’immondizia e Pino, si chiamava il mascalzone, aveva detto no.
La sera, la signora Gallo, chiese all’ascensore di accompagnarla ad ogni piano.
Gli disse: -Caro Ascensore, oggi non ho voglia di parlare-.
Con i coinquilini non le andò bene: chi non c’era e chi non apriva e chi rifiutava.
Aveva preso una busta più grossa, una di quelle nere, sperando che qualche giorno avrebbe portato consiglio a Pino o alla Signora Mesti o a quella del primo piano.
E invece, dopo sei giorni, proprio quella del primo piano le aveva sbattuto la porta in faccia. –Signori RONCO- diceva la targhetta che per poco non prendeva sul naso.
Nell’ascensore si lasciò sfuggire un –Signora Ronco- e la sua faccia aggiungeva i particolari.

Quella notte successe un fatto strano. Suonarono alla porta, era tardi ma la Signora Gallo era ancora sveglia. Guardò dallo spioncino: un uomo. Mai visto.
-Sìiii?- chiese
-Signora Gallo?
-siì?
-Signora Gallo, la sua busta-.
Aprì.
L’uomo rimase sulla soglia, lei gli portò l’immondizia e lui sparì.
Il giorno dopo Pino le chiese se le serviva ancora -quel servizio-. Disse proprio così, e la Signora Gallo si fece una bella risata.

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