La pancia di Carlotta fa dei rumori misteriosi. Soprattutto la sera, prima di dormire.
Carlotta, curiosa come sempre, decide di chiedere un po’ in giro.
-Sono i rumori della fabbrica della cacca- dice la mamma.
-Ah- fa Carlotta, ma non le crede: quella è fissata con la cacca, spia sempre nel suo vasino e, con la maestra, non parla d’altro.
-Sono le ranocchie innamorate- dice la vicina Tonia
-Ho capito- mente Carlotta che non crede nemmeno a lei. La signora Tonia sa sempre tutto di tutti gli innamorati del quartiere, certo che vede innamorati ovunque, anche nella sua pancia!
-È il canto della balena che hai nella pancia- dice il nonno –sai, le balene parlano tra loro cantando e il loro canto percorre tantissimi chilometri. Le balene sono in pericolo, ne sono rimaste poche, e così alcune di loro si sono nascoste nelle nostre pance anche se per farlo devono rimanere piccoline. E chiacchierano con altre balene in altre pance-
-Hmm- dice Carlotta per niente convinta, che il nonno stia diventando scemo?
Poi, la sera nel suo letto, ecco i rumori. Si mette una mano sulla pancia e viaggia con quel suono attraverso mari e montagne e sente una risposta venire dalla pancia di un bambino sulle Ande e da quella di una vecchietta in India e da quella di un signore a Londra e ascolta storie belle e brutte di posti vicini e lontani.
Carlotta si addormenta accarezzando la balena nella sua pancia.
Tutti quanti, venite tutti quanti.
ecco il comunicato stampa.
Sinergy Art Studio
presenta
Samuele Larocchia – Alessio Fralleone
Uomando
a cura di Flavia Montecchi
Uomando è il momento dell’uomo che trasforma l’uomo. O meglio, è il fare artistico dell’uomo nella pratica manuale di costruire l’immagine che ha di se stesso e dei suoi simili:
“Il presente è pensiero in atto. Qui è costruzione artigiana di un’idea, gesto non concluso, l’uomo e il suo concetto.” (S. Larocchia)
Samuele Larocchia e Alessio Fralleone condividono due angoli del Sinergy Art Studio per dare forma alla figura dell’uomo contemporaneo racchiusa nei loro mondi: mentre Samuele scolpisce il suo uomo nel bianco del tufo, Alessio lo definisce su un foglio a parete rispettando le reali proporzioni umane. Una performance live in cui le opere di due artisti seppur distanti e antitetici si confrontano contemporaneamente con il pubblico e tra di loro, mettendo in scena l’atto pratico della creazione artistica in fieri. Nella prima sala, durante la performance, gli uomini di Samuele e quelli di Alessio saranno esposti su tela per l’uno, su carta per l’altro, esibendo le caratteristiche principali delle loro pratiche pittoriche. L’uomo di Samuele è un uomo primitivo, dai tratti duri e gestuali. La sua figura si concentra nella semplicità di gesti e azioni quotidiane che si oppongono all’umanoide macabro di Alessio.
“Il primo piano di comunicazione è la creazione dell’opera performativa: la passione, l’energia, gli errori, il tempo, la perplessità della creazione del “quadro” divengono manifeste al fruitore, che così vive e “sente” la tensione dell’atto creativo, percependo l’opera come prodotto del “sentire” dell’artista.” (A. Fralleone)
Alieni estraniati dall’incombenza dei propri arti, gli uomini di Alessio esplodono in protuberanze anatomiche opposte alla finitezza formale del tratto libero di Samuele: una malinconica figurazione si nasconde nella pratica rappresentativa dei suoi personaggi che sembrano quasi indifferenti al ringhio delle forme dilaniate di Alessio.
L’uno davanti all’altro i due artisti vengono chiamati in causa per raccontare l’uomo contemporaneo nell’evoluzione della loro arte. Nella serata del 15 maggio, dalle 19 in poi, si potrà assistere al loro incontro, un dibattito silenzioso quanto pratico sulla figurazione dell’uomo.
I padroni di quei cani non ci mettevano piede sul prato.
Come se fossero vecchietti che guardano le papere nel laghetto del parco.
Ma i vecchietti non mettono piede nel laghetto perché è sporco e poi non si fa il bagno al parco.
I padroni, invece, non volevano sporcarsi schiacciando qualche cacca.
Le cacche erano dei cani.
I cani non parevano farci caso, alle cacche, un po’ perché i cani non hanno problemi con i propri e altrui escrementi, un po’ perché quel prato era un bel posto per correre e rotolarsi e respirare in una vita da cane d’appartamento.
I padroni, a volte, non lasciavano liberi i propri cani in quel prato ma permettevano loro solo una circumnavigazione. I cani, allora, sembravano navi di marinai curiosi dell’ignoto del mare aperto, costretti a navigare, invece, lungo la costa perché così vogliono il capitano e i mezzi tecnici.
Tentavano di tirare, i cani, ma il guinzaglio era saldo e il padrone temuto o benvoluto.
Restava il naso, l’avanguardia.
Parentesi: in genere i marinai non erano poi tanto curiosi visto che la vita gli sembrava valere molto più di una qualsiasi esplorazione. Erano i padroni ad essere curiosi. I padroni dei marinai.
Un giorno arrivò il giardiniere.
C’era un giardiniere che si occupava solo del giardinetto con panchine per vecchi con giornale e giochi per bambini con parenti.
Il giardino si trovava di fronte al prato che sembrava un laghetto.
Ma quel giorno il giardiniere arrivò proprio per il laghetto, il prato.
Si mise a zappare.
A togliere erbacce e a salutare la gente che un po’ si stupiva di vederlo a lavoro in quel prato.
Quel giorno tutti i cani vennero tenuti al guinzaglio.
I padroni, dei cani, vennero a sapere che in quel prato sarebbe stata messa una madonnina.
Una statuetta della Madonna.
Il giorno dopo il giardiniere creò un’aiuola in mezzo al prato.
La domenica la madonnina venne scoperta dal sindaco come una qualsiasi statua.
La domenica la madonnina divenne Madonna a tutti gli effetti grazie al prete.
I fedeli portarono fiori.
Il prato restava un laghetto, solo che aveva guadagnato un’isola.
I padroni non sapevano più se i propri cani potevano scorazzare e cacare in quel prato.
C’era la madonnina.
Un altro giorno arrivarono gl’ingegneri coi loro strumenti.
Poi i muratori coi loro.
I padroni iniziarono a cercare altri posti dove fare sfogare i propri cani che iniziavano a diventare irrequieti per quella vita di appartamento e guinzaglio.
I muratori iniziarono gli scavi.
Intanto nella città la popolazione cresceva.
E le macchine aumentavano. Sempre più automobiline per il bambino fissato e fortunato!
E anche l’inquinamento.
E lo stress della popolazione aumentava.
Ognuno diceva: GUARDA CHE TRAFFICO, mentre guidava verso casa o verso qualche altra parte.
Anche chi prendeva l’autobus o la bicicletta o andava a piedi diceva: guarda che traffico.
Lo spazio in cui la popolazione,le macchine e lo stress crescevano rimaneva però sempre lo stesso.
Il problema che ne derivava, a quanto dicevano i giornali, era riassunto nella frase che tutti quelli che guidavano verso casa o verso qualche altra parte dicevano una volta arrivati: NON C’È PARCHEGGIO. In genere a questa frase seguivano bestemmie o altre forme d’espressione che i giornali evitavano di riportare nelle interviste per l’articolo: “Non c’è parcheggio”.
Parentesi: lo spazio tende a rimanere sempre lo stesso a meno che marinai poco curiosi non si spingano lontano dalle coste per ubbidire ai loro padroni curiosi. Qualsiasi spazio i marinai possano scoprire in questa esplorazione sarà limitato anch’esso.
Il prato fu recintato, nascosto agli sguardi.
Arrivavano e partivano camion e scavatrici e saliva la polvere oltre le recinzioni.
Se questo non fosse bastato alla gente a capire cosa stava succedendo lì, un cartello aggiungeva preziose informazioni.
Il cartello diceva che la ditta tal dei tali stava realizzando parcheggi sotterranei e anche che questi ultimi erano comprabili. Il cartello dava un’informazione e in più faceva pubblicità. Era una buona idea. Infatti i garage vennero venduti prima che i lavori fossero ultimati.
Parentesi: quello di estendere le coste sarebbe un buon metodo per i marinai e i loro padroni. I marinai diventerebbero muratori e con un po’ di misure di sicurezza terrebbero protetta la loro vita.
I padroni raggiungerebbero il fine della loro curiosità, la colonizzazione, con un vantaggio in più: quello di aumentare i territori colonizzati.
Lo spazio, però, non cesserebbe d’essere limitato.
Ed eliminare qualsiasi pozza d’acqua non sembrerebbe una buona idea.
Quando i muratori tolsero le recinzioni e andarono a fare una doccia il prato non c’era più.
Rimaneva la madonnina con un’aiuola intorno. Giusto per farla respirare, poverina. E perché se qualcuno avesse voluto inginocchiarsi per pregare non dovesse farlo sul duro cemento.
Il prato, se avesse potuto, avrebbe rimpianto le paperelle, i cani, ma quei traditori s’erano già dimenticati di lui e anche se passavano lì vicino lo ignoravano. Ormai quel prato era cemento e quei cani ne vedevano già tanto di cemento nella loro vita. Si aggiunga che nessun padrone permetteva al proprio cane di fare i bisogni lì, a causa della madonnina, il che rendeva praticamente nulla l’attrazione che quel cemento, prato, aveva sui cani.
Il prato, se avesse potuto, oltre a rimpiangere i cani e, ovviamente, odiare chi l’aveva trasformato in parcheggio, avrebbe avuto qualcosa da dire pure alla madonnina. Lei era arrivata con tutti i suoi fiori e riconoscimenti e dopo la disgrazia, cementificazione, lei era ancora lì con i suoi fiori, i suoi riconoscimenti e anche l’ultimo pezzetto di prato sopravvissuto. Colonizzatrice! avrebbe pensato il prato, se avesse potuto.
Da un po’ i giochi degli altri bambini lo facevano sbadigliare e i suoi pupazzi non inventavano più nuove avventure. Uffa era diventata la sua parola preferita. Allora partì a cercare fortuna come quelli delle fiabe.
Incontrò una vecchia con due pesanti buste della spesa.
-Giovanotto aiutami e non te ne pentirai- disse. Lui prese una busta e la seguì.
La casa della vecchia era piccola e buia ma aveva un buon odore. Senza accorgersene Tonino si addormentò su una poltrona. Quando riaprì gli occhi era sera e la vecchia stava cucinando.
-Mangia qualcosa e rimani qui, questa notte, potrai ripartire domani.
Dopo cena gli fece una cioccolata calda e gli disse: -Prendi questo specchio, ti aiuterà nei momenti di bisogno come hai fatto tu con me.
Tonino guardò lo specchio, non sembrava niente di speciale ma lui era un bambino educato e ringraziò.
La mattina dopo partì con lo specchio e un pezzo di torta nella tasca.
Camminava per un bosco quando si ritrovò in una radura circondata da un muro di alberi. Su un masso era seduto un gigante. Alto quattro metri, più grosso di un elefante, dormiva. Tonino si avvicinò ma quello aprì due occhi terribili, si alzò di scatto e si gettò verso il bambino. Tonino iniziò a correre in tondo per sfuggirgli, poi si ricordò dello specchio e si bloccò. Anche il gigante, stupito, si fermò. Tonino gli puntò contro lo specchio ma non successe niente, allora ci guardò dentro per vedere cosa c’era che non andava e puff sparì.
Il gigante si grattò la testa, si girò di scatto, ma quella pulce di bambino non era da nessuna parte. Raccolse lo specchio e si guardò.
Tonino vide la faccia del gigante che si avvicinava e capì di essere nello specchio. Negli occhi del gigante che si specchiava vide il motivo della sua rabbia: nessuno gli aveva mai dato un bacio.
Il gigante pensava di non essere poi così brutto e si chiedeva perché nessuno gli avesse mai dato un bacio e stava per sbattere lo specchio contro il masso quando il bambino saltò fuori dal vetro dandogli un piccolo bacio sul suo grosso naso. Il gigante diventò tutto rosso e scappò aprendo un varco tra gli alberi.
Tonino prese lo specchio e seguì la strada aperta nel bosco dal gigante in fuga. Il bosco finì in un deserto di terra nera. Dalla cima di una duna Tonino vide un castello: era lì che doveva andare. Iniziò la discesa ma era solo a metà che sentì un ruggito. Si guardò intorno ma non vide niente. Altri quattro passi e il ruggito tornò. Si sentiva anche una puzza strana, un misto di maiale, gallina e cane bagnato. Quando il ruggito fu proprio alle sue spalle Tonino sparì nello specchio. Passò qualche secondo, poi, dal suo nascondiglio magico, Tonino vide un drago. Solo da lì poteva vederlo perché il drago si mimetizzava perfettamente. Proprio per questo era cattivo: non voleva più prendere il colore delle cose che gli stavano intorno. Voleva avere il suo colore, che fosse blu, verde, giallo, anche rosa, ma doveva essere suo. E poi nessuno lo vedeva e gli calpestavano sempre la coda. Non ce la faceva più e mangiava tutti.
Tonino si frugò in tasca, ricordava di averci messo un pennarello rosso e infatti eccolo. In un attimo fu fuori dallo specchio e incastrò il pennarello dietro l’orecchio del drago che diventò rosso fuoco, bellissimo. Il drago emozionato volò via, anche per controllare di non prendere il colore del cielo.
Il castello era circondato da un fossato senza ponte levatoio. Tonino sperò che lo specchio avesse una soluzione. Dallo specchio vide un corridoio illuminato da torce e in fondo una porta. Allungò una mano per aprirla e si trovò nel corridoio. La porta si aprì senza difficoltà ma appena ebbe varcato la soglia si richiuse con un tonfo sospetto. Era in una stanza buia. Un rumore di passi. Silenzio. Una fiamma e a pochi centimetri dalla sua faccia c’era una strega. Scappò verso la porta ma quella non si apriva. Alle sue spalle la strega ridacchiava e si leccava le labbra. -Che bello spuntino- disse e spense la fiamma. Tonino non poteva guardarsi allo specchio se tutto era buio. Ecco, pensò, la mia fortuna sarà la pancia di una strega. E già sentiva mani gelide avvicinarsi al suo collo quando vide che filtrava un po’ di luce da sotto la porta. Diede un calcio alla strega, mise lo specchio nella luce e sparì. Da dentro lo specchio gli fu tutto chiaro. Quella non era una strega ma una bambina che si annoiava da troppi anni. Si era annoiata così tanto da diventare vecchia, brutta e cattiva. Ma Tonino sapeva di cosa aveva bisogno. Uscì dallo specchio e la prese per mano: -Vuoi essere mia amica?- le chiese. La strega sorrise e subito tornò bambina, gli strinse forte la mano e rispose: -Sì.
La bambina portò Tonino nel salone del castello e lì c’erano il drago rosso e il gigante timido che li aspettavano per iniziare a giocare. Giocarono e giocarono e, quando furono stanchi, si sedettero ad un tavolo e iniziarono ad immaginare le mille avventure che li attendevano.
Se ricordate dicevo che c'era un'illustratrice pronta a lavorare su "La storia della gallina Pina", bene ecco i suoi bozzetti. Un progetto di libro illustrato in cerca di editore. Ricordo che l'illustratrice è Francesca Quatraro. Grazie, grazie Frà.
Il divano gonfiabile stava comodoanche se non riusciva a sentirsi completamente realizzato.
Il sottoscala non era un brutto posto per lui che non aveva ideali estetici.
Era solo un posto come un altro dove stare.
Lui era fatto per stare da qualche parte.
Era l’essere sgonfio a lasciarlo perplesso.
Una questione di percezione di sé.
Da piccolo era stato sgonfio e chiuso in una scatola.
Poi l’adolescenza l’aveva portato fuori dalla scatola ed era cresciuto, gonfiato, prendendo una forma che credeva definitiva. Invece era tornato sgonfio e nella scatola. Non riusciva a capire. Era già la vecchiaia?
Non era la vecchiaia. Era una storia di uomini che decideva la sorte del divano.
Alda aveva regalato il divano a Filomena.
Filomena l’aveva gonfiato ma s’era resa conto che in casa sua non c’era abbastanza spazio.
Lo aveva regalato, allora, a suo fratello Elio.
Quando Alda seppe che Filomena aveva dato a Elio il divano che lei le aveva regalato, si offese e litigò anche un po’ con Filomena. E le disse: - a questo punto, se non lo devi tener tu, restituiscimelo che lo metto a casa mia -.
Filomena non aveva voglia di litigare e così chiese a Elio di restituirle il divano e poi lo riportò ad Alda. Passò qualche mese e Alda si stufò del divano che ritornò a casa di Filomena, questa volta nel sottoscala.
Il divano non sapeva niente di tutta questa storia.
Il divano sapeva:
di essere di plastica,
di essere arancione,
di poter essere gonfio o sgonfio.
Il divano non sapeva niente degli uomini, delle loro storie e della loro Storia.
Nel suo inconscio, o era nel dna?, c’erano tracce di una storia.
Era una storia la cui origine si perdeva nel buio dei secoli passati.
Ma, nei sogni, non tutta la storia si rivelava al divano.
E nella memoria cosciente, quella della veglia nel sottoscala, la storia iniziava in tempi ancora più recenti.
Il divano sognava:
di essere un albero, con le foglie mangiate da qualche animale.
di essere un animale e mangiare le foglie di un albero.
di essere animale e poi albero o viceversa e di morire.
Il divano ricordava:
di essere una goccia nera che insieme ad altre aveva procreato.
che quella procreazione aveva anche significato la sua morte come goccia.
che aveva dato alla luce la plastica che ora era la pelle sgonfia di sé.
Anche la storia degli uomini si perdeva nella notte dei tempi.
anche loro però avevano tracce della loro origine in posti molto nascosti di sé.
né la loro memoria cosciente né i loro sogni gli rivelavano l’intera storia.
Gli uomini sognavano:
di essere scimmie tra le foglie. scimmie terrorizzate dai predatori.
di trovare una fiamma e di addomesticarla.
di trovare un seme e di piantarlo.
Gli uomini avevano un trucco per i ricordi.
Era quello di raccontarli ad altri uomini.
Così ogni uomo poteva sapere molti più ricordi che i suoi soli.
Il divano aveva paura che quella che stava vivendo nel sottoscala fosse la vecchiaia.
O il momento, forse, di riprodursi.
quindi di morire come divano.
Il divano si spiegava la morte con l’idea della riproduzione.
A volte l’idea gli piaceva e pensava che sarebbe stato altro, che la vita continuava, comunque.
A volte aveva paura e basta.
Anche gli uomini avevano paura della vecchiaia. E della morte che sapevano essere l’ultimo momento della memoria cosciente. Gli uomini avevano dato il nome di morte a quel momento in cui tutti gli uomini passati avevano smesso di raccontare.
Gli uomini si spiegavano la morte con tante idee diverse.
A volte queste idee gli piacevano.
A volte avevano paura e basta.
2
Il divano non sapeva niente degli uomini, delle loro storie e della loro Storia.
Stava nel sottoscala.
Il divano non sapeva nemmeno di avere più memoria cosciente di quella di un singolo uomo.
E neanche delle diverse idee che gli uomini avevano della morte sapeva niente.
Il divano era cieco e sordo e immobile nel sottoscala.
Solo e inconsapevole della propria solitudine.
Un giorno Filomena si ricordò del divano gonfiabile e ne parlò con due suoi amici: Dina e Federico. La sorella di Federico, Anna, doveva arredare la casa che aveva appena finito di restaurare con il suo convivente, Ebano.
Federico lo sapeva e disse a Filomena: -potremmo chiedere ad Ebano e Anna se gli serve- ovviamente riferendosi al divano gonfiabile. Filomena era d’accordo.
Ebano e Anna volevano il divano. –Almeno per vedere se sta bene in soggiorno- disse Anna.
Il divano stava per uscire dal sottoscala ma non ne sapeva niente.
Il divano non aveva potere decisionale.
Era privo di autodeterminazione.
-Che stupidi gli uomini- avrebbe pensato il divano se avesse saputo ciò che gli uomini credevano essere la morte.
Perché il divano aveva più memoria di ogni singolo uomo ma, riguardo la morte, ne aveva anche più di tutti gli uomini insieme.
Sapeva che la morte era riproduzione.
Gli uomini, invece, sapevano la morte come fine. Quello che c’era dopo quella fine era oscuro e spiegato solo da idee, non da memoria. Gli uomini potevano in ogni momento chiedersi: -ma sarà giusta la mia idea?-.
Il divano non si chiedeva niente.
Il divano non aveva potere decisionale.
Era lì nel sottoscala e pensava che quella fosse già la vecchiaia. e ne aveva paura un po’ e un po’ no pensando che dopo si sarebbe riprodotto. Era lì ma non dipendeva da lui il suo essere lì, dipendeva dagli uomini. Anche la sua paura era quindi causata dagli uomini.
Anna ed Ebano presero il divano.
Ebano lo gonfiò. Anna lo guardò: stava bene in soggiorno.
Il divano scoprì, allora, che quella vissuta nel sottoscala non era la vecchiaia.
Dopo qualche mese Anna ed Ebano comprarono un divano più grande e non gonfiabile.
Il divano finì in cantina.
Poi Anna ed Ebano lo regalarono a dei loro parenti che lo tennero un po’ e poi lo misero nello sgabuzzino fino a quando non lo diedero ad un’organizzazione ecclesiastica che ne fece un premio di una pesca di beneficenza .
Di casa in casa, da gonfio a sgonfio, un giorno il divano finì in una discarica.
Quel giorno, dopo tante vecchiaie temute, il divano non credeva più nella vecchiaia.
Lasciò scorrere l’acqua e riempì il primo bicchiere per sé, il secondo per la sua pianta. Iniziava a fare caldo e avevano bisogno di più acqua, lui e la sua pianta. La sua pianta era menta e stava sul balcone. Lui si chiamava Carlo ed era pronto per uscire. Controllò di avere le chiavi e ripassò a mente l’indirizzo: Via Signoretti, n° 19. Camminando per Via Libaldi, Carlo arrivò ad incrociare Via Signoretti all’altezza del numero 50. Era ancora presto, doveva aspettare il buio, e così rimase sul lato dei numeri pari e passeggiò fino al numero 176 poi attraversò e tornò lentamente indietro. Al numero 19 di Via Signoretti c’era un condominio. Sei giorni prima, martedì, Carlo stava passeggiando quando i suoi occhi erano stati attratti da una luce rossa sulla sua destra. Era il numerino che segnalava il piano dove stava l’ascensore del numero 19. S’era fermato. L’ingresso era buio e Carlo vedeva solo se stesso riflesso nel portone e quel numero rosso. Il numero segnava 2. D’un tratto un quadrato s’era illuminato giusto sotto il numero. Era il pulsante per chiamare l’ascensore. Il numero era diventato un tre, poi un quattro, poi una pausa, poi tre. Qualcuno stava scendendo. Carlo aveva pensato di spostarsi per non farsi vedere ma continuava a fissare il numero rosso e non riuscì a muoversi. Intanto il numero era passato a due e il quadrato-pulsante s’era spento. Qualcuno era andato dal quarto al secondo piano. S’era mosso con un sospiro, era arrivato in fondo alla strada per vedere come si chiamasse. Poi aveva attraversato, era tornato all’altezza del condominio e dal lato opposto della strada aveva guardato il numero civico. Memorizzato l’indirizzo s’era ripromesso di tornarci. Carlo era curioso, gli piacevano i misteri. Voleva tornare al numero 19 di via Signoretti ma aveva deciso di aspettare qualche giorno per non destare sospetti.
Ora era lunedì, erano passati sei giorni. Il numero segnava 5. Carlo s’appoggiò ad una macchina e accese una sigaretta. Tra lui e il portone c’era l’intero marciapiede ma i pedoni erano pochi e lui vedeva distintamente i numeri dell’ascensore. S’illuminò il tasto, fece un tiro, e 5-4-3, fumava tranquillo, 2-1, a Carlo tremarono le mani, la sigaretta rotolò per terra e sotto la macchina a cui era appoggiato, i numeri andarono avanti: 0 e poi -1. Carlo cercò di calmarsi. S’era immaginato le porte dell’ascensore che si aprivano scorrendo e una luce gialla sgorgarne come pus e aveva avuto paura. Come se dall’ascensore potesse uscire non una persona ma qualcosa di malvagio. Sentiva che se l’ascensore si fosse fermato sarebbe svenuto. Fortuna che non era successo. Ma già tornava a muoversi. Salì fino al secondo piano. Poi si fermò. Poi fino al quarto. Poi niente. Carlo era sfinito. Non riusciva a muoversi, avrebbe voluto tornare a casa dalla sua pianta, a casa per pensare. Continuò a fissare il portone e la sua immagine riflessa e il quattro rosso. S’alzò la saracinesca del garage al numero 17. Una macchina coi vetri oscurati ne uscì, silenziosamente. Carlo la guardò con la coda dell’occhio imboccare Via Signoretti, girò la testa per leggerne la targa ma non fu abbastanza rapido: era sparita. -Deve salire?- Era una signora che armeggiava con la sua borsa. -No, grazie- La signora trovò le chiavi e aprì il portone. Carlo aspettò che fosse entrata e, prima che accendesse la luce, se ne andò.
A casa. Solo otto gradini, un cancelletto e altri due gradini. La porta di legno, la cara porta di legno, due giri di chiave a destra e Carlo era a casa. Lasciò scorrere l’acqua e bevve il primo bicchiere, il secondo lo portò sul balcone. La pianta di menta stava ancora bevendo il suo primo bicchiere. -Ciao- le disse e s’addormentò sulla sedia, nel suo profumo. Con la mano destra teneva il bicchiere poggiato sulla sua pancia. Lo svegliò la pioggia. Le gocce rimbalzavano sul pavimento e schizzavano sui suoi piedi nudi. Non si ricordava di essersi tolto le scarpe. Erano accanto a lui, con i calzini dentro. Ricordava, invece, pezzi del sogno che aveva fatto.
Il numero rosso lo guardava. Lo incuriosiva cambiando 2-3-4-pausa-4-5-stop e 5-4-2. Ma gli diceva: non devi vedere l’ascensore. Era un ordine. Fortissimo nella sua testa. E arrivava gente. Tutti gli chiedevano: -Lascio aperto?- oppure -Deve salire?- o -Entra? Lui, puntuale, rispondeva: -No- oppure –Sto aspettando…- o –Aspetto…- e appena quelli entravano si voltava a guardare la strada. Non poteva guardare l’ascensore. Poi si trovava in un garage. C’era una luce bluastra. Come un’alba. Si sentiva a disagio. Buio. Buio in movimento. Dentro l’ascensore? Panico e poi calma. Una parola per calmarlo: giallo Vedeva un amico, da lontano. O almeno credeva di vederlo. Non lo chiamava per verificare che fosse lui. L’osservava da lontano. Quello, diventato un’ombra, sparisce più in là, lungo la strada. E lui attraversava via Signoretti, riconoscendola solo allora, con un sacco nero. Si sentiva colpevole. Ma, per fortuna, con sollievo era arrivata la pioggia e lui aveva cantato. La stessa pioggia che l’aveva svegliato. Guardò le scarpe vicino a sé: zuppe. I calzini, pure. Si toccò la camicia: asciutta ma non era la stessa di quando s’era addormentato. Brrrrr. E nella testa una parola: giallo. Non aveva più nessuna voglia di tornare al numero 19 di via Signoretti.
2- l’investigatrice
La signora Ronco stava sempre a casa. Viveva al primo piano del numero 19 di via Signoretti. Le sue finestre davano direttamente sulla strada. Dalle 18:00, massimo 18:10, leggeva un libro davanti ad una delle sue finestre e dava occhiate alla strada. Un giorno notò un signore, un signore coi baffi. Rispettabile, avrebbe detto di lui in quel momento. Era rimasto fermo davanti al portone, s’era specchiato ed era andato via. Innocuo, avrebbe detto di lui in quel momento. Era martedì. Giusto quel giorno era venuta la Signora Gallo, la pazza del secondo piano, quella che fa i giri con l’ascensore, su e giù. La Signora Ronco non le aveva aperto, aveva paura degli sconosciuti. Suo marito, il Signor Ronco, tornato a casa da lavoro alle 20 come tutti i martedì, aveva detto che la luce delle scale non funzionava. L’ascensore invece sì. Ora erano tre avvenimenti particolari in una giornata: il signore “rispettabile e innocuo”, la visita della vecchia pazza e l’ascensore che funzionava anche senza corrente. La signora Ronco aveva deciso di tenere gli occhi aperti.
Passò una settimana senza avvenimenti particolari. Sei giorni, per la precisione. Il lunedì dopo, infatti, la Signora Gallo tornò a suonare al suo campanello. La Signora Ronco s’era fatta coraggio e le aveva aperto la porta. -Cosa vuole?- -Può buttare la mia immondizia, per favore?- La Signora Ronco aveva sbattuto la porta, non era la schiavetta di nessuno, lei. Ed era tornata alla sua finestra giusto in tempo per veder arrivare il signore coi baffi. Sembrava ancora rispettabile e innocuo. Era rimasto fermo davanti al portone, appoggiato ad una macchina, s’era fumato una sigaretta poi era tornata la Signora Foschi e il signore coi baffi era andato via. La Signora Ronco, erano le 19: 30, era andata a vedere un telefilm poliziesco aspettando suo marito ma quando il Signor Ronco tornò dal club, alle 22 come tutti i lunedì, le raccontò di nuovo la faccenda dell’ascensore e della corrente e aggiunse che c’era un tipo davanti al portone, uno coi baffi. La Signora Ronco corse alla finestra ma quello era già sparito. Gli stessi tre avvenimenti, con l’aggravante del ritorno del losco signore coi baffi. Decise di fare molta attenzione e così quella notte rimase sveglia. Verso mezzanotte sentì l’ascensore muoversi. Corse alla finestra ma vide solo una figura sparire dall’altra parte della strada. Rimase sveglia per il resto della notte ma niente si mosse più. Non poteva chiamare la polizia per così poco, si disse -Vigilerò io-, si aggiunse quando alle 5:30 si alzò per preparare la colazione del marito.
Un mese dopo quel lunedì trovarono la vecchia pazza, la Signora Gallo, morta nell’ascensore ma la Signora Ronco non lo seppe, giusto il giorno prima era stata ricoverata per un esaurimento.
3- l’ascensore
La signora Gallo era molto vecchia. Aveva novantacinque anni ma le sembrava di averne un milione. Ricordava tante cose e viveva da sola. Era un po’ stanca ma stava bene. Erano giorni che non usciva dal palazzo ma non aveva rinunciato a qualche passeggiatina. Usciva, chiudeva a chiave e prendeva l’ascensore. Una sera aveva iniziato a parlargli. Così, tra un piano e l’altro, come ad un vecchio amico. L’ascensore era un buon amico.
-Sai, tante cose sono successe, Caro Ascensore- E gli raccontava di storie passate e di programmi televisivi. A volte il confine era labile. I suoi figli vivevano lontani. –Voglio vivere con le mie mani, capisci?- e aveva rifiutato la proposta di stare un mese da ognuno di loro e pure a quella di tenere una donna in casa. –Poi c’era un cane parlante e quelli, i padroni, avevano vinto. Quello che vanno in televisione a fare le scommesse pure i nani e un uomo che tira un camion- Se l’avesse avuto lei un cane parlante, altro che scommesse. -Fortuna che ci sei tu, Caro Ascensore. A loro non l’ho detto che non esco più di casa. Ma non parliamo di me-. Quella del cane parlante fu l’unica volta in cui la signora Gallo parlò all’ascensore del suo presente. Non voleva fare la vittima. Le sue giornate erano tranquille e noiose, i momenti con l’ascensore erano i migliori. I programmi televisivi erano scuse per riflettere. -Ieri sera c’era un film coi tedeschi. Di quando erano cattivi. Gli inglesi e gli americani erano i buoni. A scuola, io c’ho la terza elementare, la maestra c’aveva detto che gli inglesi erano cattivi poi sono diventati buoni. Una mia amica s’è fatta il vestito da sposa con il paracadute di uno che hanno fatto prigioniero. Non ricordo se era inglese o tedesco. Comunque. Adesso sono tutti buoni. Mio figlio Davide vive in Germania. Dice che è come qua ma lo pagano di più. Io ho sentito che ci stanno i turchi. Su quelli non si sa ancora se sono amici o nemici. Alcuni dicono che mettono le bombe e gl’immigrati fanno le rapine. Alcuni dicono che scrivono le poesie e mia sorella c’aveva la donna a casa che era turca, no, rumena ed era brava-.
Veniva un ragazzino a portarle la spesa. Aveva sempre una cosa per lui, mai soldi. Gli aveva fatto pure una sciarpa. Ma un giorno gli chiese se poteva buttare la sua busta dell’immondizia e Pino, si chiamava il mascalzone, aveva detto no. La sera, la signora Gallo, chiese all’ascensore di accompagnarla ad ogni piano. Gli disse: -Caro Ascensore, oggi non ho voglia di parlare-. Con i coinquilini non le andò bene: chi non c’era e chi non apriva e chi rifiutava. Aveva preso una busta più grossa, una di quelle nere, sperando che qualche giorno avrebbe portato consiglio a Pino o alla Signora Mesti o a quella del primo piano. E invece, dopo sei giorni, proprio quella del primo piano le aveva sbattuto la porta in faccia. –Signori RONCO- diceva la targhetta che per poco non prendeva sul naso. Nell’ascensore si lasciò sfuggire un –Signora Ronco- e la sua faccia aggiungeva i particolari.
Quella notte successe un fatto strano. Suonarono alla porta, era tardi ma la Signora Gallo era ancora sveglia. Guardò dallo spioncino: un uomo. Mai visto. -Sìiii?- chiese
-Signora Gallo?
-siì? -Signora Gallo, la sua busta-. Aprì. L’uomo rimase sulla soglia, lei gli portò l’immondizia e lui sparì. Il giorno dopo Pino le chiese se le serviva ancora -quel servizio-. Disse proprio così, e la Signora Gallo si fece una bella risata.
Stava lì, a metà scalinata e, vista da lontano, la sua figura era solo una macchia tra il bianco dei gradini.
Avvicinandosi s’iniziavano a distinguere meglio le forme e quella figura a metà scalinata smetteva d’essere una macchia per diventare una pausa, tra il bianco dei gradini, una pausa di vita tra un prima e un dopo di pietra.
Stava lì, quasi con indifferenza.
A metà scalinata con la gamba destra piegata un gradino sotto di sé e il piede sinistro un gradino più giù. Le braccia le teneva in grembo.
Ma questi particolari non erano subito notati. Perché c’era una sola cosa che affascinava i passanti. Una sola cosa attirava il loro sguardo a rischio di farli inciampare contro un gradino, se stavano salendo le scale, o di farli sbattere contro un palo se stavano passando nella via sottostante la scalinata.
La sua caviglia sinistra.
C’era qualche combinazione magica tra la posizione del piede, la lunghezza dei pantaloni e la bassezza delle scarpe, chemetteva in evidenza la sua caviglia.
E dire “in evidenza” è poco.
La caviglia s’ergeva, sorgeva, s’innalzava, tondeggiava padrona dell’attenzione, scandalosa quasi.
Scandalosa eppure naturale.
Come il seno nudo di una donna che allatta. Con l’esclusione della funzionalità.
Sì, perché un seno nudo allattante è giustificato e, anche se tutti gli occhi ne sono attratti, nessuno potrebbe giudicarlo scandaloso.
Per la caviglia era diverso. Anche i passanti scandalizzati non potevano esprimere il loro giudizio sprezzante perché non s’è mai vista una caviglia scandalosa e tutti gli avrebbero riso dietro se si fossero indignati ad alta voce.
Intanto la caviglia attirava gli sguardi. Nuda e perfetta.
E gli sguardi si vergognavano del loro fissare ma non smettevano.
E nessuno riusciva, allontanatosi un po’, a ricordare chi c’era dietro quella meravigliosa caviglia, anzi nessuno riusciva a pensare a pensieri concreti, c’erano solo sensazioni nei corpi e nemmeno per la caviglia ma per il suo fascino.
Molti si chiedevano -ma cos’è che m’ha fatto questo?- quando riprendevano coscienza di sé.
Rari erano quelli che ricordavano la caviglia, ma anche costoro non riuscivano nemmeno a dare un sesso al corpo di cui la caviglia faceva parte.
Questo succedeva perché i passanti, per natura, passano e nessuno di loro contravvenne a questa legge fisica nemmeno quella mattina, nemmeno per quella caviglia.
Io, invece, mi fermai.
Sarà perché sono un debole e non riesco ad abbandonare ciò che m’affascina,
sarà perché sono un vecchio porco depravato e guardone,
sarà perché non sono mai stato un passante fondamentalista,
sarà per quel che sarà, fatto sta che io mi fermai.
Mi sedetti in un posto che mi garantiva un buona visuale e guardai. e mi lasciai conquistare e trasportare. e sicuramente sarei rimasto lì, come un ebete, se non avvenne ciò che avvenne.
La caviglia venne coperta.
Con delicatezza, quasi con premura, una mano scese a coprire la caviglia.
Fu allora che alzai lo sguardo e vidi di chi era la caviglia, gli vidi anche sul volto l’aria di chi non s’è accorto dello scompiglio che ha provocato.
Stava lì, a metà scalinata e io m’alzai.
Quando fui lontano, e mi girai per l’ultima volta, la macchia tra il bianco dei gradini era scomparsa.
Se ciò non bastasse c'è già un'illustratrice pronta ad illustrare la Gallina Pina. Ed è Francesca Quatraro
Intanto: buonalettura.
La storia della gallina Pina
La gallina Pina si svegliò presto quella mattina. Come sempre. Coó-Có-come sempre. Ma aveva un pensiero strano quella mattina. Un pensiero grigio e grande, tanto grande che occupava tutta la testolina della gallina Pina. Guardò l’uovo che stava covando. -Coó-Có-come sarai figlio mio?- chiocciò Pina. Coó-Có-come tutti, pensò poi. Con questo pensiero nella sua testolina visse il resto di quel giorno come una gallina. Come sempre. Come tutte le altre galline. Ma, quando chiuse gli occhi per dormire, per un attimo tornò quello strano pensiero grigio e senza nome. Poi si addormentò che era buio ormai. Covò per il tempo necessario. E per tutto il tempo fu accompagnata dal pensiero grigio. Una mattina il guscio si ruppe.
-È proprio uno strano pulcino- pensò la gallina Pina. In effetti era proprio strano. Somigliava ad un pulcino solo perché era tondo. Ma per il resto niente era come sempre. Era grigio. Non aveva né piume né ali. Una strana coda. Quattro zampe. Quattro? Quattro. Quel becco che non beccava, tondo, lungo e molliccio. Grandi orecchie e un pigolio decisamente troppo forte. Pina non si preoccupò e lo chiamò Burro.
Burro iniziò a crescere. E cresceva eccome! Ma né Pina né le altre galline del pollaio si insospettirono. Continuarono la loro vita come sempre. Solo ogni tanto si sentiva sussurrare un -Coó-Có-come è strano però- subito spento da un semino trovato nell’aia. Quando Burro era diventato più o meno quattrocento volte più grande di Pina le disse: -Mamma, sali sul mio dorso- e lei fece come le chiedeva. Burro scavalcò con un passo il recinto della fattoria e si mise a correre per i prati là intorno. Pina era stordita dal vento forte e dal panorama che vedeva da lassù. Poi si addormentò che era buio ormai. Burro continuò a correre.
Quando Pina si svegliò Burro nuotava in una grande pozzanghera. Pina non ne vedeva la fine e scorgeva di Burro solo il dorso su cui stava e la testa che emergeva dall’acqua. -Dove siamo? -Questo è il mare, mamma. Un pesce venne a galla e la salutò: -Salve, blup signora. Blup. -Lei chi è?- fece Pina spaventata. -Io blup il pesce e vivo blup acqua- e tra blup e poche parole le parlò dei pesci e degli altri animali e delle piante che stanno nell’acqua. Tutte cose che voi sapete, no? Coó-Có-com’è diversa la vita qui, pensò Pina, poi si addormentò che era buio ormai. Burro continuò a nuotare.
Pina aprì gli occhi e le sembrò di essere finita in un cespuglio, solo che le foglie erano migliaia e i rami si incrociavano fitti fitti. -Dove siamo? -Questa è la giungla, mamma. Una scimmia dondolò davanti al becco di Pina: -Uelà, pollastra!- sghignazzò. -Tu chi sei?- chiese Pina scandalizzata. -Io sono la scimmia e vivo tra i rami- e le lanciò una buccia. Poi le parlò delle scimmie e degli altri animali che stanno nella giungla. Tutte cose che voi sapete, no? Coó-Có-com’è ingarbugliata la vita qui, pensò Pina, poi si addormentò che era buio ormai. Burro continuò ad andare.
Pina sognò di volare, si svegliò e continuava a volare! Intorno a lei solo aria ma le ali mica le muoveva. Sentì, solido, Burro sotto di sé e si calmò. -Dove siamo? -In cima ad una montagna, mamma. Un’aquila scese in picchiata, Pina s’abbassò giusto in tempo. -Inchinarsi, ecco il modo giusto di salutare una Regina- disse l’aquila. -Mi parli di lei, Maestà- fece Pina affascinata dal rapace. -Io sono l’aquila e regno nei cieli- e girando in cerchi, lontanissima lì in alto, le parlò delle aquile e degli altri animali che volano. Tutte cose che voi sapete, no? Coó-Có-come mi piacerebbe volare, pensò Pina, poi non si addormentò anche se era buio ormai. -Burro, tu chi sei? -Sono un elefante, mamma, e non vivo in un pollaio- e le parlò degli elefanti e le disse che lui non poteva tornare. -Adesso capisco- disse Pina anche se le veniva da piangere –io devo tornare, invece, e raccontare alle altre galline tutte le cose che ho ascoltato. Burro l’accarezzò piano con la proboscide e l’accompagnò al pollaio.
Da allora tutti gli elefanti tengono degli uccelli sul dorso. Da allora tutte le galline si raccontano storie sugli animali del mondo. E la prima storia che i cuccioli di elefante e i pulcini ascoltano è quella della gallina Pina. La storia inizia così: “La gallina Pina si svegliò presto quella mattina. Come sempre. Coó-Có-come sempre. Ma aveva un pensiero strano quella mattina. Un pensiero grigio e grande…”